Il 21 dicembre 1988 Cristina Formenton Mondadori (figlia di Arnoldo Mondadori e vedova di Mario Formenton) e i suoi figli Luca, Pietro, Silvia e Mattia, si impegnano a vendere alla CIR di Carlo De Benedetti, entro il 30 gennaio 1991, 13.700.000 azioni dell'Amef (finanziaria della Mondadori) contro 6.350.000 azioni ordinarie Mondadori. Poco dopo, però, i Formenton si alleano con Berlusconi e lo mettono a presiedere la casa editrice.
I Formenton a questo punto non vogliono dar corso all'accordo del 1988, così tre arbitri (Pietro Rescigno, Natalino Irti e Carlo Maria Pratis, rispettivamente designati da CIR, dai Formenton Mondadori e dal primo presidente della Suprema Corte di Cassazione) vengono incaricati di dirimere la controversia. Si giunge così al lodo arbitrale che dà ragione alla CIR.
De Benedetti ottiene il controllo della maggioranza assoluta (50,3 % del capitale ordinario) di Mondadori.
I Formenton, però, non si arrendono e decidono di impugnare il lodo davanti alla Corte d'appello di Roma, facendosi assistere da tre insigni avvocati: Agostino Gambino, Romano Vaccarella e Carlo Mezzanotte (per inciso: Gambino sarà designato quale "saggio per il blind trust" nel primo governo Berlusconi e poi diverrà ministro delle Telecomunicazioni nel governo Dini; Vaccarella e Mezzanotte sono ora giudici costituzionali). La Corte d'appello decide con un collegio formato dal presidente Valente, dal relatore Vittorio Metta e dal terzo giudice, Giovanni Paolini. Se la sentenza non arrivasse entro il 30 gennaio 1991, il patto di vendita delle azioni dai Formenton a De Benedetti dovrebbe essere eseguito.
I giudici tuttavia sono assai tempestivi (!!! le lungaggini della giustizia italiana dove sono finite? ndR).
La camera di consiglio si conclude il 14 gennaio 1991 e Vittorio Metta già il giorno seguente, il 15, sottopone al presidente la sentenza di centosessantotto pagine, che il 24 gennaio 1991 viene infine pubblicata. La Corte d'appello, con essa, dichiara che parte degli accordi tra CIR e i Formenton è in contrasto con la disciplina delle società per azioni.
Il lodo arbitrale viene pertanto annullato e la Mondadori torna sotto il controllo di Berlusconi.
(fonte: magistraturademocratica.it)Chi sporcava la giustizia
di GIUSEPPE D'AVANZO (da Repubblica - 30 aprile 2003)
NON si comprende la solidarietà che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha espresso alla velocità della luce nei confronti di Cesare Previti, condannato a undici anni di carcere per corruzione.
Le cose stanno così. Cesare Previti, per il tribunale di Milano, ha corrotto i giudici di Roma per truccare alcune sentenze. Una di queste sentenze ha annullato il cosiddetto Lodo Mondadori che ha consentito al presidente della Fininvest, oggi capo del governo, di mettere le mani sulla più importante casa editrice del Paese.
Anche Berlusconi è stato imputato in questo processo. La Cassazione lo ha tirato via dall'affare ritenendolo semplicemente un corruttore "costretto" alla corruzione dall'opaco andazzo che governava le cose di giustizia nella capitale.
Di quella opacità, Cesare Previti era un dominus, per il tribunale di Milano. Un "signore delle sentenze" che, grazie alla rete di interessi economici intessuta con i magistrati, otteneva risultati assai benefici per i suoi assistiti. Tra i quali, anche il presidente del Consiglio.
Ora a tutti dovrebbe apparire evidente che Silvio Berlusconi dovrebbe, per lo meno, avvertire, anche se imputato salvato dalla prescrizione, la responsabilità morale della condanna di Previti. Quella condanna lo interpella, lo chiama in causa.
La sua funzione di capo del governo, come è ovvio, oggi non c'entra nulla. Questa è soltanto una sentenza di primo grado e anche i condannati di oggi rimangono ancora sub judice. Ci sarà l'appello. Interverrà la Cassazione, e soltanto allora si potrà parlare di processo concluso, di condanna (o assoluzione) definitiva.
Ma una condanna provvisoria così severa dovrebbe per lo meno imbarazzare, invitare al silenzio e al rispetto per la Giustizia chi, nei fatti, è stato ed è tuttora, come proprietario della Mondadori, beneficiario diretto di quell'atto corruttivo.
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