Cara è la fine...ci annusano ormai,sentono il lezzo del panico che spruzza in freddi sudori il terrore che c'è.Non glieli daremo per ungersi dei nostri mali stillanti le mani avide:che ci tocchino morti, secchi e gelidi.Oh, non piangere,urla piuttosto e lasciamo di noi un ricordo toccante.Stringiti a me,ringhiagli addosso e poi sparami mentre io sparo a te.Dieci pistole spianate e dieci sguardi ruvidi e tesi che puntano qui dentro l'auto, e la corsa finisce così. Cara è la fine...perdonami.Oh, non piangere,urla piuttosto e lasciamo di noi un ricordo toccante. Stringiti a me,ringhiagli addosso e poi sparami mentre io sparo a te. Ci vogliono vivi e colpevoli...ma che vita è una cella? Avremo di più:quella stella che un giorno mi donasti, lassù.Oh, non piangere...

sabato 2 aprile 2011

X Giornate di Brescia - Ultimo Giorno


ANTEFATTO
(Brescia, 31 marzo 1849)

È il crepuscolo. Case e ville sui Ronchi e fuori le mura bruciano “tanto che sull'imbrunire vedevasi la nobile città incoronata d'incendi”. Dal Castello un uomo osserva inquieto lo spettacolo. Atroci pensieri agitano la mente da Tenente Maresciallo Haynau. Il giorno seguente, Primo Aprile, il terzo corpo d'armata dell'esercito al comando del gen. Appel “con fioritissima artiglieria” sarebbe giunto a Brescia. L'uomo freme. La resistenza deve essere piegata al più presto e la città espugnata prima dell'arrivo dei soccorsi, non può tollerare una simile umiliazione. Ci sono uomini per cui l'onore viene prima di tutto.

NOTTE DI TERRORE - Calano le tenebre dopo l'inferno delle Termopili dell'Albera. E proprio quando negli uomini sembra scemare la foga assassina per lasciare spazio all'agognato riposo, ai soldati imperiali viene ordinato di forare i muri delle abitazioni, penetrarvi all'interno bruciando e devastando ogni cosa, “nuovo ed orribile modo di guerra”. Alcuni gregari si aggirano per la contrada con acqua ragia, pece, paglia, “a propagare fiamme”. Viene dato fuoco alle case di S. Urbano e ai vicoli popolatissimi che stanno a porta S. Alessandro “e presto giganteggiarono le vampe, spandendo largamente sotto il cupo orizzonte d'una notte nubilosa un orrendo chiarore, che fu visto per quasi tutta la Lombardia”. I cittadini che hanno combattuto per tutto il giorno, vegliano in armi questa ultima notte di libertà. Cercano come possono di combattere il fuoco, soccorrendo i feriti ed ospitando le famiglie in fuga dalla “ferina caccia de' Croati”, i quali, dopo aver appiccato le fiamme ad una casa, si appostavano nei pressi degli edifici per impedire i soccorsi o per ricacciare i fuggitivi nelle loro case. Così depredano e si tengono come trofeo di guerra, le macchine idrauliche, che i pompieri, credendosi privilegiati per legge di umanità, hanno portato a S. Urbano.

Intorno alla mezzanotte mentre i rettori del Comune, i più autorevoli cittadini, e i duumviri del Comitato si riuniscono a consiglio, in città cresce il crepitio degli incendi, le case crollano, tuonano i moschetti e le campane seguono a martellare rabbiosamente. Sopra ogni cosa si diffondono le urla di uomini, donne e fanciulli: “come fiere intrappolate”, lanciano disperate richieste d'aiuto che dalle sale del Consiglio di tanto in tanto sembrano dileguarsi spazzate via dal fragore di un crollo improvviso e poi, improvvisamente, risorgono a seconda delle mattane del vento che trasporta qua e là, quel maestoso groviglio di macabri suoni.



La disfatta e la barbarie

Brescia, Domenica 1 aprile 1849


Dopo 10 giorni di rivolta la città torna sotto il giogo imperiale (come prima, forse più) soggiogata dalla sadica prepotenza del potere e dal saccheggio vorace dei suoi aguzzini. È cosa nota che una città sia lo specchio dell'animo di chi la abita. Brescia oggi è solo fuoco, violenza, distruzione e morte. Qui la speranza non ha ragione di esistere. Dopo 240 ore, di fronte a 15 mila baionette imperiali, i bresciani si arrendono vinti dalle fatiche di un sogno infranto. La speranza non abita più qui: è volata via, insieme ai fumi degli incendi, alle urla disperate dei bresciani e ai capi della rivolta. Tra gli altri, anche il comandante Speri è costretto a lasciare di nuovo la sua terra natale (non la rivedrà più). È la maledizione di questa povera Patria, quella che costringe i suoi figli migliori a stare lontani, costretti dal destino a vivere altrove, in attesa di tempi migliori.

Secondo le stime del comitato, le munizioni bastano appena per un giorno. C'è chi attende aiuti dalle valli o dai volontari bergamaschi di Camozzi (è una settimana che li aspettiamo). Non arriveranno. Il pericolo è cresciuto come il numero di pezzi dell'artiglieria nemica, ma restano immutate le ragioni della difesa. Brescia resiste fino all'ultima cartuccia, fino all'ultima speranza, all'ultima stilla di sangue dell'ultimo cittadino rimasto in piedi. Ci sono uomini che preferiscono morire per un sogno infranto piuttosto che sottomettersi alla barbarie. Così è per i bresciani, anche oggi, nel giorno dell'assalto finale.

PRIMO APRILE: ALBA – E' Domenica delle Palme, di solito, un giorno di pace che prelude al martirio e alla resurrezione. Non per Brescia a cui vengono riservati solo fucili e baionette, casa per casa, strada per strada, barricata dopo barricata. Eppure per la città è come se la lotta cominciasse ora. Il grido di guerra dei cittadini corre per tutte le contrade e le campane maftellano più furiose che mai. I bresciani accorrono da ogni parte e si tengono pronti per saltar fuori dalle barricate, assalire i nemici e snidarli dagli avamposti che hanno conquistato col favore delle tenebre e l'aiuto degli incendi.

A BRUTTANOME - Nessuno s'aspetta una reazione simile: Torrelunga è in preda alla confusione, (“se solo i nostri fossero stati numerosi e freschi come sono intrepidi”). Le schiere nemiche avanzano a scaglioni verso contrada Bruttanome (oggi corso Magenta, ndR), vengono portati due cannoni per abbattere i serragli interni. Un gruppo di cittadini lancia un assalto alla baionetta da una via traversa, rovescia le prime file ed è subito addosso ai cannoni, che gli imperiali difendono con i loro corpi e riportano a forza di braccia fin alle mura. È l'ultima vittoria dei Bresciani. Molti soldati austriaci cadono. Diversi ufficiali ed un colonnello vengono feriti, un maggiore rimane ucciso. Il gen. Nugent già ferito a San Francesco nei giorni scorsi, venne colpito nuovamente ad un piede che gli verrà amputato (morirà il 17 aprile).

Arrivano nuove artiglierie e nuovi battaglioni dal Ticino e dal Mincio e si piazzano attorno la città. Haynau li fa entrare in battaglia “con arte veramente infernale”. Schierata l'artiglieria pesante sulle mura e all'inizio delle vie più larghe, comincia a “spazzare” le contrade. “Indirizzano i cannoni e l'impeto dei guastatori contro le case e, sfasciati i muri, penetrano col ferro e col fuoco e passando di casa in casa, spuntano dietro le barricate confondendo ogni ordine della difesa cittadina”.

A stravolgere la psiche dei difensori e ad agghiacciarne il sangue ci pensa la vista delle nefandezze, a cui si dedicano, ebbri o feroci, i maledetti schiavi dell'Impero. I militari uccidono tutti quelli che incontrano per le vie e nelle case a colpi di fucile o con la baionetta, sgozzandoli sul posto. Non pochi (per la maggior parte indigenti, ammalati o inabili a difendersi) vengono arsi vivi “impeciandone le membra e le vesti di trementina”. Gli imperiali si scagliano contro donne e fanciulli, “con tale raffinata crudezza” che a tutti paiono superare in ferocia qualsiasi impeto animale. “Le membra lacerate delle vittime” vengono scagliate dalle finestre e contro i serragli, “come si getta ai cani l'avanzo d'un pasto”. Sulle barricate piovono teste di fanciullo divelte dal busto e braccia di donne e carni umane bruciate. Sangue e bombe diluviano su Brescia, resistente indomita nonostante tutto, di fronte alla barbarie straniera. Ma non bastano questi orrori per fermare i cittadini. Le campane della città suonano ancora la carica contro la furia di Haynau, la cui “indole ambiziosa e felina che sospinge l'esercito imperiale a imperversare più sollecitamente e ferocemente”. I soldati obbediscono e sfogano contro tutti la loro avida crudeltà. Appel è giunto e la Jena non ha ancora piegato Brescia, comunque vada l'onore è perduto.

CADE L'ALBERA - Gli imperiali scendono dal Castello coperti dall'artiglieria, investono case e orti che stanno sopra piazza S. Giuseppe. All'improvviso compaiono alle spalle della barricate in piazza dell'Albera (nella foto, oggi Piazza Tito Speri). Le Termopili cadono, stavolta non c'è modo di fermarli. Occupano il Broletto, anche qui massacrano e bruciano le persone, gettandole dalle finestre e dai tetti delle case circostanti. Così accade anche a S. Alessandro dove “un tal Giuseppe Cassamali, inzuppato d'acqua ragia, arde trascinarsi carponi, torcersi, urlare negli atrocissimi spasimi, fra l'applaudire beffardo e le selvagge risa dei croati, pazzi di gioia da tale straziante agonia”.




Stessa sorte tocca al fabbro ferraio Carlo Zima (foto sopra) che viene vigliaccamente dato alle fiamme, ma tra gli spasmi della disperazione, riconosce il suo aguzzino ed “ebbro di feroce vendetta, gli si butta addosso e avvinghiatosi a lui rabbiosamente, furiosamente, come tigre inferocita con la preda, gli comunica il suo fuoco, il suo spasimo, la sua stessa tragica morte”.

IL CAPPIO SI STRINGE - Gli austriaci occupano San Nazzaro e conquistano terreno nelle contrade principali. A porta S. Giovanni (ora piazza Garibaldi ndR) che ha visto qualche banale scambio di fucilate con perdita inutile di munizioni, ora avanza il 3° corpo d'armata proveniente da via Milano. L'avanguardia è già nella borgata di S. Giovanni, a Fiumicello e Urago. Contemporaneamente altre truppe giungono a tappe forzate da Mantova. Alla fine, per soffocare Brescia, serviranno 15.000 uomini. Aumentano le esplosioni, gli incendi, le carneficine, gli orrori “mentre calano le forze dei difensori insieme alla speranza degli inermi”: anche i prigionieri vengono cosparsi di acqua ragia o di bitume e dati alle fiamme. Ma l'orrore, al sadico, non basta mai e così le “donne dei martoriati” prima d'esser violentate sono costrette “ad assistere a siffatta festa”. In alternativa, immobilizzati gli uomini, gli invasori procedono a scannarne mogli e figli davanti ai loro occhi così che la morte è preceduta (se non causata) da una dolorosa e disperata follia.

Nulla vale più. “L'insieme di questi fatti rende fremobondi gli spiriti, li esalta al parossismo, li rende frenetici di vendetta e di sangue”. La disperata rappresaglia di chi sta per cedere si scatena per le vie della città in cerca di soldati solitari o di individui che sono in odore d'essere spie con l'intenzione di far fare anche a loro la fine di chi è stato massacrato in casa propria. Molti prigionieri asburgici vengono liberati e uccisi lungo le vie. Da questo scempio inumano e incivile, se pure comprensibile, restano esclusi feriti ed infermi austriaci degli ospedali (tanto per sottolineare la differenza tra lo spirito bresciano e l'ignobile furia austriaca).

Gli imperiali non si fermano. Haynau è stato chiaro: “niente prigionieri, chi viene colto con le armi alla mano deve essere ucciso all'istante e tutte le case da cui partono colpi di fucile devono essere date alle fiamme”. La rabbia, il furore e il delirio dell'Impero giungono al colmo e per Brescia scocca l'ora fatale. Anche il Municipio viene preso d'assalto. Ai difensori restano solo “4000 cartucce e pochi chilogrammi di polvere”. Non bastano. Il Comitato, prende atto del peso che grava sulla città: ormai la maggioranza assoluta dei cittadini rimasti in piedi inclina per la resa. I poteri tornano al Municipio e viene dichiarato sciolto il Comitato. Cassola e Contratti, dopo aver condotto i moti fino a quel punto, scompaiono dalla città.

UN FRATE DA HAYNAU – L'unico obiettivo è quello di far cessare il massacro, la qual cosa significa: accedere al Castello e parlare con Haynau, impresa pericolosa e delicata. L'ambasceria viene affidata a padre Maurizio Malvestiti da Verolanuova (nella foto), del convento di S. Giuseppe, “per la sua vita specchiata, per dottrina, per consiglio onorando, e noto anche, per essere stato istitutore dei figli di Luciano Bonaparte, amico di Luigi Napoleone, allora Presidente della Repubblica Francese”.

Nel frattempo le cose, “come per legge di gravità, continuano a precipitare”. Haynau vuole strozzare la città, circondarla e attaccare contemporaneamente i punti d'accesso di S. Giovanni, Porta Pile e San Nazzaro, non ancora presi d'assalto. Sono poco più di 250 i bresciani a difesa delle tre porte, ma resistono per ben due ore all'attacco di più di 500 imperiali. Visto il sopraggiungere del terzo corpo d'armata, e venuti a conoscenza delle voci sulla resa imminente, nelle prime ore pomeridiane, anche questi abbandonano i presidi. Il terrore imposto da Haynau, non placa la furia bresciana. Gli irriducibili si spargono per ogni dove, si appostano agli angoli delle contrade, o alle finestre delle case per far fuoco, si raccolgono nelle piazze per atroci consulte, si inoltrano di nuovo fino alla barricata dì S. Barnaba, e nuovamente, col valore della disperazione ricacciano altri 200 croati, “a forza di baionette nelle reni, fin oltre il mercato Grani prossimo all'estrema barricata di Torrelunga”. Parecchi bresciani, più per la disperazione che per l'onore delle armi, non vogliono venire a patti e rifiutano di consegnare le armi, agitano bandiere rosse, vogliono guerra e sangue ausburgico. Cinque volte dall'alto del palazzo municipale viene inalberata bandiera bianca, e per cinque volte viene strappata”.

In questo frangente, padre Maurizio, accompagnato da padre Ilario da Milano, e dal cittadino Pietro Marchesini, con bandiera bianca alla mano, si dirige verso il castello. Procede a colpi di suppliche e richieste di perdono fra baionette croate e improperi bresciani che gli intimano di retrocedere. Alla fine giunge al Castello per offrire la resa della città. "Che vuoi da me frataccio?" Haynau si rivlge al frate, in ginocchio di fronte a lui, con arroganza. Malvestiti, “dissimulando di non aver udito il rozzo insulto”, con ogni dignità si presenta. Sorpreso l'Haynau dal contegno del frate, e avvertito in quali intimi rapporti si trovasse col presidente della repubblica francese, diventa improvvisamente più mite (conècc... ndC). Il colloquio dura un'ora. Haynau spiega “come sia troppo tardi per poter egli riuscire a trattenere la sue truppe” e segnala al frate le nuove milizie che avanzano, sulle quali dice “di non aver facoltà di comando”. Prima di fermare i massacri, la Jena chiede la liberazione dei prigionieri austriaci, senza la quale, "non è possibile intendersi". (“E qui non va taciuto che l'Haynau, durante questi negoziati, non ordinò ai suoi di sostare nelle mosse, mentre i nostri, avvertiti delle trattative in corso, seguendo il costume di leali guerreggianti, lasciarono di restar vigili alla difesa”). Così gli austriaci ne approfittano per occupare altre contrade “tanto che può dirsi che la tregua abbia più nociuto a Brescia, che i molti giorni trascorsi di combattimento”.

Dopo la consegna dei prigionieri, il maresciallo dichiara di accettare la resa della città alle seguenti condizioni: “che le sue genti vi fossero tranquillamente accolte, nulla di ostile sarebbe accaduto nè alle vite nè alle sostanze dei pacifici cittadini, poiché ad ogni colpo dalle finestre gli autori sarebbero stati uccisi e le case incendiate”. Alle jene – si sa – non basta mai e così viene stabilita pure una multa a titolo di espiazione (saranno sei milioni di lire austriache, compreso il costo di ogni cartuccia sparata da ogni fucile austriaco). Sulle prime sia il frate ambasciatore che i cittadini non comprendono a pieno l'entità della sanzione. A padre Maurizio pare di aver condotto “felicemente l'arduo negoziato. Tra le altre cose, Brescia viene riconosciuta quale parte belligerante (nemica vinta, ma non serva da perdonare) appagando così anche l'orgoglio dei bresciani visto che “ad essi parve, cosa accettabile e decorosa”, se di decoro si può parlare al termine di una giornata di massacri, scempi, fiamme e macerie. Le pezzuole bianche sventolanti sui fucili degli austriaci, confermano la pace conclusa.

"Non tutti si acquietano". L'illusione dei falsi bollettini, pubblicati nei giorni scorsi dal Comitato, fomenta in molti cittadini l'intenzione di proseguire la guerra. Il Municipio afferma di non poterli controllare. La Jena rassicura sadicamente il governo cittadino: “lasciate a me – dice con piacere – l'incarico di rompere le teste più dure”. È la scusa che serve per concedere ai soldati il premio lungamente promesso: saccheggio e carneficina. Alle 4 pomeridiane, arriva il rinforzo di un battaglione croato da Verona, oltre ad una batteria di mortai da Mantova. La resa è stata firmata, ma anche questi entrano in azione e, a colpi di scure, passano da una casa all'altra. Saccheggiano e incendiano. I nostri, assaliti e sospinti, si sono ridotti nella parte nord-ovest della città fra porta Pile e San Giovanni. I nemici, sempre passando di casa in casa, giungono dietro le trincee. In quel lembo di città, “come a far fede di indomabile valore”, la resistenza prosegue fino a notte inoltrata. Verso le cinque pomeridiane viene aperta la porta ad ovest ed entra in città l'avanguardia del terzo corpo d'armata e con essa il resto delle truppe: venti battaglioni di fanti con cavalli e cannoni, tutti boriosi dopo la vittoria di Novara. Sulla porta trovano due sentinelle bresciane (“comandate quali guardie civiche d'ordine pubblico per essere rilevate dagli entranti”). Vengono uccise prima di essere riconosciute.

I militari di Appel, occupano i quartieri S. Girolamo, Nuovo, e del Fontanino, trascinando con sé feriti e prigionieri. Danno a tutti del brigante, mentre portano a penzoloni sulle bajonette orologi, catenelle d'oro, collane, scialli, manicotti di pelo, braccialetti ed altri oggetti rubati. “La licenza soldatesca non ha freni”. Tutti diventano delinquenti, “tutti punibili e con quali pene si è già visto”.

Lo stato maggiore manda subito a chiedere al Municipio viveri ed alloggio per i soldati sopraggiunti, non senza far intendere che i militari erano venuti a marce forzate verso Brescia, nella speranza di arrivare in tempo per saccheggiarla. Il Municipio, ingiuriato e minacciato, non sa come provvedere. Nella città sconvolta è stato necessariamente interrotto ogni servizio “di rifornimento sia in carne, sia di altro genere di vettovaglie, tuttavia alla fine si riesce faticosamente a provvedere per 15 mila razioni di pane e vino e salumi aggiungendovi legna e paglia in abbondanza".

Per tutta la città si accendono i fuochi dei bivacchi "ed intorno ad essi il tumulto barbarico e le gozzoviglie dei vincitori, durano fino al mattino”. A sera, non ancora cessati gli incendi che rischiarano tutta la città, “l'insultante gazzarra delle soldatesche imperversa nelle vie, esacerbando l'infinito dolore della cittadinanza”. Verso le undici e mezza si sentono all'improvviso esplodere alcuni colpi fuori della città, verso ponente. Non già lontani echi di reazione, ma piuttosto strascichi di repressione. “Dura quel crepitare di colpi, come di un'avvisaglia di avamposti, per alcune ore, poi svanisce, senza che altro per allora se ne sentisse”. Solo ora, nel silenzio marziale della prima notte di schiavitù, può dirsi chiuso il decimo e ultimo giorno della gloriosa Rivoluzione di Brescia.


FONTI:

Questo resoconto non sarebbe stato possibile senza l'esistenza del sito:
http://www.brescialeonessa.it/xgiorni/start.htm

da cui sono stati estratti buona parte di testimonianze, immagini e atti ufficiali:
Testimonianze tratte anche da:

- Carlo Cassola, "Insurrezione di Brescia ed atti ufficiali, durante il marzo 1849"
- Cesare Correnti, "I Dieci Giorni dell'Insurrezione di Brescia"
- Felice Venosta, "Il martirio di Brescia: narrazione documentata"
- Anonimo Bresciano, "STORIA DELLA RIVOLUZIONE DI BRESCIA DELL'ANNO 1849",
- Lucio Fiorentini, "Le Dieci giornate di Brescia del 1849"
- "La Leonessa", numero unico per il Cinquantenario delle X Giornate di Brescia, edizioni Canossi, marzo 1899.
- Fausto Lechi, "Avvenimenti accaduti in Brescia nel marzo 1849", Brescia 1929
- (Sonetti) "Le Des Zornade del Quarantanof, Cento Sonecc en dialèt Bressà", Brescia 1902, raccolti da Eugenio Paroli.

10 commenti:

Anonimo ha detto...

Amen.

anonimo bresciano ha detto...

grazie a MdC per averci mirabilmente descritto il motivo per cui brescia è la leonessa d'italia.

« D'un de' tuoi monti fertili di spade,

Niobe guerriera de le mie contrade, Leonessa d'Italia,
Brescia grande e infelice. »

(Aleardo Aleardi, Canti Patrii, 1857.)

...... ha detto...

EVVIVA L'ITALIA,

EVVIVA BRESCIA,

EVVIVA JEBEDIA ED MDC!

corsi e ricorsi ha detto...

anche le rondinelle per una giornata sono leonesse...

er fumettista ha detto...

bravi, bravi e ancora bravi(o), quest'opera di ricostruzione digeribile per gli stomaci meno famigliarizzati con la storia. dovrebbe esere cosi' diffusa da certi giornali (gdbs, bsoggi etcc)...sempre i soliti condizionali....ma sto popolo lo si vuole erudire? w la storia a fumetti di enzo biagi!

Per la mia piccola Jena ha detto...

dedicated to ten. mar. gran. filg. di putt. Haynau

"uccidi ma non vuoi morire"...

O scribacchiello ha detto...

a fummettì...

te ringarazio
se nun la fa nisuno famola noi 'sta versione fumettara

erudioamoglielo noi 'sto popolaccio a vangate nei denti

Anonimo ha detto...

Il cane della settimana è il cane del decennio.

Ruggerone ha detto...

A mme me piacuto quanno che gli austiraci se stavano a cagà sotto, e li brescia gli davano de beestia.

Oh, grazie eh, ve ho vissuto, aò.

Però a parte coi austriaci che se prendevano le pizze en faccia la mijore!

Siete gajardi, ve ripetto.

Anonimo ha detto...

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